Il fato dell'uomo
“Il Signore mi manda dove vuole, “non siete voi che avete scelto me, ma io che ho scelto voi”;
egli mi conduce al compimento della missione che mi ha assegnato, secondo i doni ricevuti.
Non posso deviare né a destra, né a sinistra, se il Signore non me lo permette;
invano cerco di calcare la strada che il Signore non mi ha indicato, dovrò tornare indietro.
Ecco che volevo andare lontano ma il Signore non me l'ha permesso; mi ha richiamato alla terra dei miei padri, non potrò andare oltre.
Tra i miei fratelli mi ha mandato ad evangelizzare;
non con le parole della mia bocca, ma con l'opera delle mie braccia.
Il Signore mi ha chiamato a camminare tra i suoi figli affinché vedessero il cammino che lui ha scelto per loro;
non camminerò ancora per i sentieri della gioia, ma il Signore mi preserverà da quelli del dolore e dell'afflizione.
Tremano i miei piedi, vacillano le mie gambe nel buio della notte;
la luce del Signore è nel mio cuore e mi conduce, sostiene le mie forze che vengono meno”.
“La virtù sta nella via di mezzo”! Questa antica massima, comune a molte civiltà, trova ancora la sua validità oggi ogniqualvolta noi ci lasciamo trascinare dagli eccessi in reazione ad altri eccessi di segno opposto.
Anche i credenti si sono spesso lasciati portare da un eccesso all'altro, credendo così di porre rimedio ad un precedente errore, ma in verità, così facendo, ne hanno commesso un altro.
Per un certo tempo la fede è stata vissuta come una sorta di fatalismo, quasi che l'uomo, essere impotente davanti alla maestà di Dio, dovesse subire il suo destino, qualunque esso fosse, felice o avverso, senza possibilità di fare nulla per cambiarlo.
Questa visione era certo il prodotto di una società statica, se non addirittura immobilizzata, che vedeva una piccola parte dell'umanità benedetta con ogni benedizione materiale (e conseguentemente anche spirituale), mentre la maggioranza di essa era soggetta ad un tragico destino (per volere di Dio!) a cui non poteva sottrarsi.
Il fatalismo era per questo l'atteggiamento più comune tra i credenti, in attesa di una vita migliore, nel Regno dei Cieli; cosa poteva fare l'uomo se non accettare il suo fato? Anche se si fosse opposto ad esso in qualche modo, ben difficilmente avrebbe potuto cambiare lo stato di cose (immutate da secoli) e quindi il suo destino!
Con l'avvento dell'età dei lumi, madre della democrazia, del potere delle masse, dei tempi moderni, dove gli antichi ordini sono stati scossi da cruenti rivoluzioni, o almeno superati da ventate di rinnovamento in tutti i campi del sapere umano, inevitabilmente il fatalismo è stato soppiantato da una fede ragionata, dove il rapporto con Dio, laddove non è stato troncato (come estrema conseguenza), è stato impostato se non su di un piano di quasi parità, certamente a livello molto più dialettico.
In sintesi: se prima Dio poteva tutto e l'uomo nulla, ora all'uomo è concesso tutto e Dio è relegato ad una presenza marginale nel destino dell'umanità!
Dallo schiavo senza speranza e senza diritti dell'uomo antico, ora l'uomo moderno è diventato padrone ed autore della sua vita.
Questo mutato modo di concepire il mondo non può non avere ripercussioni anche sul rapporto che i fedeli hanno con Dio; il credente d'oggi, ovviamente, non ha smesso di credere, ma anche la propria fede risente della diversa condizione in cui vive.
Il messaggio Cristiano in verità non è mai stato né cieco fatalismo, né pura autodeterminazione; la via di mezzo è anche qui quella giusta, quella che il messaggio dell'Evangelo ci dice di seguire.
Le estremizzazioni nei due sensi non fanno parte della corretta interpretazione dell'Evangelo.
Dio ha dotato l'uomo del libero arbitrio, l'uomo non è uno schiavo senza speranze, un essere il cui destino è scritto a priori da Dio, e che quindi non può essere mutato. Il fatalismo è fuori luogo, così come lo è la rassegnata accettazione del proprio destino; l'immobilismo assoluto dell'uomo davanti al piano di Dio, non fa parte del piano di Dio.
Chi accetta Cristo come personale salvatore, accetta sì di servirlo, e vive nella speranza della sua promessa di salvezza, tuttavia, questo non significa cieco e rassegnato fatalismo (tanto Dio ha già deciso chi saranno i salvati e farà tutto lui), perché certamente Cristo ci chiama all'azione fintanto che siamo su questa terra: “andate in tutto il mondo e predicate il mio Evangelo”!
Non è questa terra il nostro riposo, né questo è il tempo del riposo e della rassegnazione, bensì quello dell'azione!
La libertà cui ci ha chiamati Cristo non deve essere tuttavia motivo di allontanamento dalla Parola di Dio; noi siamo i tralci attaccati alla vite di Cristo e, “...senza di me voi non potete fare nulla!”
Il credente reso libero dalla Parola, in reazione al fatalismo del passato, tende ora a voler andare per conto suo, credendo di poter fare tutto da solo, ma non é così!
Il tralcio staccato dalla vite non può portare frutto da solo, ma si secca ed è gettato via!
Ancora una volta dobbiamo accettare che se siamo di Cristo dobbiamo servire Cristo; non siamo più noi ad operare, ma dobbiamo lasciare che sia Cristo ad operare per mezzo nostro, soltanto così avremo successo nelle nostre opere: “invano si affaticano i costruttori se il Signore non edifica la casa”.
Per reazione a secoli di cieco fatalismo ora vorremmo fare da soli, pur avendo Cristo, a volte ci facciamo guidare non da Lui ma dalla nostra presunzione e dal nostro orgoglio, o anche solo dalla nostra ingenua voglia di fare, senza però pensare che come membra del corpo di Cristo non dobbiamo cercare di fare indipendentemente da Lui, bensì lasciarci guidare da Lui che ci coordina e ci dirige a seconda delle necessità dell'intero corpo di cui facciamo parte, e non dalla percezione parziale delle sue singole parti.
La vera forza di ogni credente consiste nel vivere ed agire non come singolo ma come parte del corpo di Cristo; se siamo liberi, lo siamo in Cristo; se possiamo fare tutto, lo possiamo perché è Cristo che opera mediante noi.
Ma se non rinunciamo a noi stessi per Cristo, la nostra fede è vana;
chi “tira Cristo per la giacca” per portarlo dalla sua parte si ritroverà soltanto un pugno di mosche in mano;
chi si riempie la bocca con le parole della Bibbia ma non le porterà nel profondo del suo cuore, non ha nulla, non ha capito nulla e non otterrà nulla!
Soltanto dopo aver rinunciato al proprio “io” per accettare Cristo, prendendo la propria croce e seguendolo sulla strada che lui indica a ciascuno dei suoi discepoli, potremo veramente chiamarci credenti, non prima! Infatti: “non chi mi chiama Signore, Signore entrerà nel Regno dei Cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio”.