Un popolo sacerdotale chiamato a proclamare il Vangelo

Settimana di preghiera per l'unità dei Cristiani 2016


Testi: Rm 10:14-15 e Mt 13:3-9

Care sorelle e cari fratelli in Cristo, la cosa più triste che possiamo vedere oggi quando ci raduniamo per invocare e lodare il Signore, è una chiesa semivuota, magari con presenti solo pochi anziani che a fatica sono venuti in chiesa a dispetto dei loro malanni. Questa immagine, che purtroppo vediamo spesso nelle nostre comunità, credo indipendentemente dalla confessione cui apparteniamo, un po ci fa male, confessiamolo;

noi credenti vorremmo vedere una chiesa sempre piena;

dei fratelli e delle sorelle che con gioiosa devozione vengono ad ascoltare la Parola e a lodare Dio per tutte le benedizioni ricevute;

giovani, vecchi, adulti e bambini, il popolo di Dio, che si riunisce al cospetto del suo Signore per condividere il momento centrale della propria giornata, quello in cui incontriamo Dio.

Questo desiderio è umanamente comprensibile;

chi non vorrebbe raccogliere il frutto del suo lavoro?

Chi non vorrebbe vedere il compimento della propria opera?

Perché dovrebbe essere diverso per coloro che annunciano l'Evangelo dunque?

Tutti noi siamo chiamati ad essere testimoni di Cristo, della sua Parola di salvezza;

tutti noi, secondo la Scrittura, siamo chiamati ad annunciare la buona novella.

Siamo chiamati a condividere la Parola e con essa la gioia che da essa scaturisce, perché l'annuncio della Salvezza di Cristo supera in forza, potenza e speranza ogni altro annuncio che sia mai stato fatto all'umanità, e chi ha ricevuto e accolto questo annuncio, non può che testimoniarlo a sua volta al suo prossimo, perché la gioia dell'Evangelo è incontenibile: è la luce della lampada che risplende nel buio e non può essere celata sotto un recipiente, è la città posta sopra il monte che non può essere nascosta alla vista.

"Quanto  sono belli i piedi di quelli che annunciano buone notizie", riprende Paolo le parole del Profeta Isaia e le fa proprie, perché pervaso dallo Spirito Santo, non può fare a meno di annunciare, di testimoniare la Parola, e il suo cruccio è proprio quello di non riuscire a fare abbastanza, di non poter raggiungere un numero adeguato di persone, e pieno di preoccupazione per questo suo umano limite, scrive: "come potranno sentirne parlare, se non c'è chi lo annunci?"

Ecco che, care sorelle e cari fratelli in Cristo, è proprio qui che ci colpisce l'evidente contraddizione dei nostri giorni.

Da un lato abbiamo una minoranza di credenti, di cui idealmente Paolo rappresenta il capofila, che si preoccupa affinché il Vangelo, la buona novella fonte di salvezza e di gioia per coloro che lo ascoltano e lo accolgono, sia proclamata ad ogni uomo, donna e giovane della terra.

Questi pochi si rammaricano che questo non possa avvenire a causa delle esigue forze a loro disposizione, o per le circostanze avverse, causa persecuzioni o quant'altro;

non di meno si muovono spinti dalla forza dell'Evangelo, con determinazione, con fervore, consci del dono ricevuto e desiderosi di farne parte con il loro prossimo, poiché l'amore di Dio ci spinge inevitabilmente alla condivisione, perché non è qualcosa che abbiamo ricevuto per noi solamente ma affinché ne facessimo parte con tutti gli altri, rendendoli partecipi della gioia che soltanto l'Evangelo può dare.

Dopo aver ricevuto l'Evangelo infatti, il credente vive una realtà di pienezza, di gioia, di allegrezza, che non ha paragone con nessun altra esperienza umana.

Dall'altro lato però abbiamo un mondo dove le chiese sono semi vuote, la gente è indifferente, per non dire fredda, chiusa in se stessa e individualista, dalla mente e dal cuore resi duri da una maturata convinzione di autosufficienza, di non avere più bisogno di Dio, di essere ormai diventati uomini e donne "bastanti a se stessi".

E allora uscire dalla realtà dei credenti per immergerci nella realtà del mondo diventa molto difficile; è un'esperienza traumatica quasi per chiunque la conosce per averla vissuta sulla sua pelle o anche semplicemente vista ogni giorno attorno sé.

Saremmo tentati di tirarci indietro, di chiuderci nelle nostre piccole o grandi comunità, circondati e protetti dalle rassicuranti cure dei nostri fratelli e delle nostre sorelle di fede, in attesa del compimento della promessa e del ritorno del nostro Signore Gesù Cristo.

Che cosa importa se le chiese sono semi vuote? Noi ci siamo; siamo pochi ma buoni!

Che cosa importa se non ci ascoltano la fuori, noi abbiamo parlato, anche se non è servito a nulla;

perché allora dovremmo tormentarci, preoccuparci, stare male per questo?

Non è meglio lasciar perdere ed evitare questi dolori causati dal sentirci dire una serie infinita di volte: "no grazie, sono già a posto così", quando vogliamo annunciare loro Gesù Cristo?

La parabola del seminatore però ci dice altrimenti; il seminatore sa che una parte del suo buon seme non porterà il frutto sperato, che non produrrà né il 100, né il 60, e nemmeno il 30, ma che inevitabilmente andrà perduto lungo la strada, o consumato tra le spine o sui terreni rocciosi.

Lo sa si, ma non per questo rinuncia a seminare, perché se il seminatore non uscisse a seminare il buon seme, timoroso e preoccupato per le perdite che subirà, sa altresì che non permetterebbe al buon seme di produrre il 30, il 60 e il 100.

Noi tutti siamo i seminatori della Parola, i testimoni di Cristo del nostro tempo; sicuramente viviamo in un tempo in cui molto del seme si perde lungo la strada, perché le seduzioni del mondo sono molto forti, così come è forte la sua presa sulla coscienza degli uomini, fino a distoglierli completamente da Dio.

Che dire poi della superficialità che oggi impera nella società, il terreno poco profondo e roccioso che spegne subito ogni desiderio di conoscere il Signore?

Ma tutto questo fa parte del nostro compito di rendere la testimonianza; non si può avere l'una senza l'altro, lo dobbiamo mettere in conto.

Se non usciamo a seminare, le nostre chiese rimarranno semi vuote, perché senza la conoscenza della Parola non crescerà nemmeno una comunità;

se non annunciamo come potranno credere?

Se non ubbidiamo all'invito del Signore di andare ed evangelizzare, come
potranno sentire?

Ecco allora il popolo sacerdotale chiamato ad annunciare l'Evangelo del tema odierno.

Noi, care sorelle e cari fratelli in Cristo, siamo chiamati a seminare, seminare sempre e comunque, senza preoccuparci di ciò che Dio farà crescere; la nostra testimonianza potrà dare poco o molto frutto, ma il seme è la Parola di Dio e appartiene a lui solo, così come suo è il raccolto.

La nostra opera è la semina e anche se ci compiaciamo quando da essa scaturisce un raccolto abbondante, nondimeno non possiamo sottrarci dal seminare, anche quando il terreno è duro, le condizioni sono sfavorevoli, il frutto è poco e di conseguenza il raccolto è scarso, perché è sempre e solo il Signore che decide: come, dove, quando e cosa far crescere.

L'invito che il Signore ci fa dunque, care sorelle e cari fratelli in Cristo, è quello di seminare la sua Parola senza stancarci mai, riponendo in Lui solo la nostra fiducia piena, proprio perché noi tutti siamo il popolo chiamato ad annunciare il suo Evangelo. AMEN